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Chateau Suduiraut , con i suoi 90 ettari vitati (90% Sémillon e 10% Sauvignon), è dal 1992 di proprietà AXA Millésimes, il braccio vitivinicolo della nota società di assicurazioni. E’ uno degli 11 premier cru di Sauternes (Yquem, come è noto, è l’unico premier cru supérieur) della classificazione 1855.
Si tratta di una delle più belle proprietà di Bordeaux, con una magnifica costruzione settecentesca, circondata da splendidi giardini, progettata da André Le Nôtre, già responsabile dei giardini del re a Versailles e alle Tuileries.
Ottomila casse annue: stabilmente tra i migliori , sicuramente tra i primi quattro-cinque , e secondo forse solo a Yquem e Climens, specie nelle ultime annate, ha inanellato una serie di vendemmie molto positive. Il terroir da cui proviene, quello di Preignac, gli conferisce un fruttato paragonabile a quello dei migliori Barsac.
Qui parleremo di tre annate, due generalmente considerate molto positive (la 1999 e la 2003) e la terza considerata in modo controverso , un’annata povera secondo alcuni , la 1996 (86/100 per Parker e 89/100 per Tanzer).
Partiamo da quest’ultima annata, che abbiamo appena riassaggiato.
La bottiglia, in splendida forma nonostante i suoi 15 anni, si propone ancora giovane, con un colore giallo oro non troppo carico. La botrytis appare subito evidente, con note eleganti lievemente fumé, che rendono più complesso un bouquet agrumato, con sentori iodati, di scorza di arancia e, lievi, di zafferano. In bocca è ricco, sapido e lungamente persistente. Lo abbiamo bevuto inizialmente un po’ fresco, data la temperatura estiva, a 12°; poi, man mano che questa saliva sui 14-15° le sensazioni olfattive diventavano sempre più intense. Un ottimo Sauternes, valutato da WOW 92/100.
Molto buono e completo anche il 1999, grasso e cremoso, dolce, ma tutt’altro che stucchevole, con note leggere di miele e di frutta candita, equilibrato di alcool e acidità. Botrytis ben avvertibile, ma non coprente, con sfumature lievemente grigliate. Un tipico Sauternes di Preignac , che vale oggi 92/100.
Sontuoso il 2003. Un Sauternes di grande spessore ed eleganza. Ricco, profondo, di grande armonia e freschezza, mostra tutta la palette olfattiva dei grandi Sauternes, con albicocca, scorza d’arancia candita e miele di acacia in evidenza, e note speziate- soprattutto zafferano- di grande eleganza. Lunghissimo: 95/100 (Pubblicato il 28.8.2011)
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Parliamo di un vino ingiustamente, quanto inspiegabilmente poco noto al di fuori dei circuiti degli amatori e assai poco menzionato sulle Guide , il Fidenzio dei coniugi Tolomei di Piombino.
Non è il solo grande vino a restare nell’ombra. Solo in tempi recenti ho infatti visto finalmente citati sulle Guide i Chianti di Castell’invilla, per me, già agli inizi degli anni ’80, tra i migliori in assoluto di questa terra magica. Eppure, già allora, ne avevo saggiati molti. Per molti anni mi è stato impossibile trovarli fuori Firenze, dove naturalmente era invece conosciutissimo. In uno dei nostri prossimi servizi parleremo dell’eccellente Fiano di Avellino di Guido Marsella, anche lui stranamente oscurato. Poche bottiglie? Qualità discontinua? Non saprei. Per fortuna non mi è però difficile trovarlo in alcuni dei miei ristoranti preferiti.
Ma torniamo al Fidenzio. Il mio è , in un certo senso, un atto dovuto. Mi imbattei casualmente in questo vino in una bella enoteca di Bolgheri alcuni anni fa. Ero tornato da quelle parti dopo un bel po’ (troppo): c’ero stato la prima volta nel 1977, il fenomeno Sassicaia cominciava allora , e volevo aggiornarmi direttamente sui cambiamenti incredibili di quella zona , divenuta improvvisamente una specie di California enologica, con decine di nuove aziende spuntate praticamente dal nulla. Acquistai alcune bottiglie , un po’ a caso, un po’ dietro suggerimento di quel bravo enotecaro (una di queste era appunto il Fidenzio, dell’annata 2001). . Non ne sapevo ovviamente nulla. Qualche mese dopo, bevvi quel vino in una cena insieme con un amico toscano, che, da bravo sciovinista toscano beve solo vini toscani, e quindi dovevo accontentarlo. Tirai dunque fuori il Fidenzio, insieme ad altri due-tre grandi “bolgheresi” della stessa annata. Rimanemmo folgorati. Sembrava un Sassicaia di una grande annata. Dal colore scuro, concentrato, dal naso intenso di cassis, tabacco e grafite, potente e balsamico, di grande profondità e lunghezza (94/100). Un grande vino toscano da uve bordolesi, come non ne bevevamo da tempo.
Lo cercai invano nelle principali enoteche di Roma, finché non trovai un numero telefonico e chiamai in azienda. Mi rispose la signora Toni Tolomei, la quale mi spiegò semplicemente che non facevano spedizioni a privati, ma avrebbe potuto darmene qualche bottiglia se mi fossi trovato dalle loro parti. L’occasione venne l’anno dopo. Tornai infatti in Toscana per il Festival pucciniano di Torre del Lago e convinsi i miei compagni di viaggio a fare una deviazione a Piombino, dove ebbi anche la fortuna di conoscere personalmente i coniugi Tolomei: raramente mi sono imbattuto in persone altrettanto gentili e autentiche. Lì, davanti a una bella brocca arrossata dal prezioso vino, dalla quale assaggiammo il Fidenzio del 2002, la sig.ra Tolomei ci raccontò la storia di quel vino, intitolato al padre, già fornitore di uve della Tenuta Ornellaia , prima di diventare produttore in proprio e battersi per il riconoscimento della DOC Val di Cornia.
Ho riassaggiato il Fidenzio, questa volta dell’annata 2005, in occasione del Merano Wine Festival di quest’anno, dove ho avuto modo di ri-incontrare la sig.ra Tolomei, che esponeva i suoi vini nell’ambito di una sessione dedicata ai vini del Consorzio Matura. Bel vino, anche se meno ricco del 2001 (la 2005 non è stata una annata favorevolissima in Toscana, ma sulla costa è diverso). Pur tra tanti assaggi, faceva ancora una volta la sua figura. Dal colore fitto e impenetrabile, con un bouquet intenso , nel quale prevalgono i frutti di bosco, sul palato è potente e morbido, con appena un cenno di surmaturazione , con tannini eleganti e setosi (92.5/100). Conservato in luogo idoneo, ha davanti a sé ancora molti anni. Tra i migliori Cabernet toscani in assoluto (Pubblicato il 25.7.2011).
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Torniamo a parlare di un vino dei Devillard, un nome nella Côte Châlonnaise, proprietari dello Château de Chamirey,a Mercurey, presso il quale producono una serie di vini, bianchi e rossi, nelle appellations Mercurey e Givry, di grande piacevolezza e precisione, ma anche del piccolo Domaine des Perdrix, a Nuits- Saint- Georges, di cui abbiamo già molto apprezzato appunto un Nuits-Saint-Georges premier cru, denominato Aux Perdrix, dell’annata 2005.In questo stesso Domaine, i Devillard producono anche un Echezeaux grand cru molto interessante, del quale parleremo in questo articolo.
Flagey-Echezeaux e Vosne- Romanée sono due villaggi (sarebbe infatti del tutto improprio chiamarle città) fisicamente molto vicini e storicamente strettamente collegati, tali che sarebbe difficile parlare di essi e dei loro magnifici vini del tutto separatamente. Del resto non va dimenticato che Flagey-Echezeaux, pur dando origine a due grand cru (Echezeaux e Grands Echezeaux), non dà il proprio nome a nessun premier cru né a nessun village, dal momento che questi ultimi vini vengono venduti semplicemente come Vosne-Romanée village e Vosne- Romanée premier cru. Questa apparente contraddizione si comprende meglio considerando che, del tutto atipicamente rispetto a quanto accade per la maggior parte delle grandi appellations della Côte-de Nuits, Flagey-Echezeaux non è al centro delle sue vigne, ma piuttosto decentrato rispetto ad esse.
Confinanti al nord con Clos de Vougeot e al sud con Nuits-Saint-Georges, nei confini di questi due villaggi sono compresi alcuni dei più grandi crus della Côte de Nuits.(sei soltanto a Vosne-Romanée:- La Tâche , Romanée Saint Vivant, Richebourg, Romanée- Conti, La Grande Rue, La Romanée, la più piccola appellation grand cru della Borgogna). Come scrisse l’Abbé Courtepée , qui “non ci sono vini comuni”. Tuttavia, pur essendo eccellenti , i vini di Flagey non hanno una reputazione pari a quella dei grands crus di Vosne-Romanée, la cui fama era nota da epoca antichissima : specialmente i vini dell’appellation Echezeaux soffrono nel confronto con quelli dei grands crus di Vosne-Romanée , e dell’altra appellation di Flagey (Grands Echezeaux) per l’eccessiva ampiezza della zona da essa compresa, eccessivamente allargata , come talvolta accade, per motivi politici più che effettivamente storici, così come è del resto in parte accaduto anche per i vini delle altre due appellations più estese di grands crus della Borgogna, come Clos-de Vougeot e Corton. Certo, se si confrontano i quasi 35 ettari di vigna in produzione di Echezeaux con gli 0.85 ettari della più piccola appellation di Vosne-Romanée, La Romanée, ma anche con i poco più di 9 ettari della più grande , Romanée-Saint-Vivant, e i i 7 ettari e mezzo del cru Grands Echezeaux, ci si può rendere conto della differenza: tutta la produzione di Grands Echezeaux non arriva infatti a 38.000 bottiglie, mentre quella di Echezeaux supera le 160.000 bottiglie. Un’altra differenza, rispetto ad altri grands crus della Côte de Nuits, è costituita dal fatto che, pur comprendendo 11 climats differenti, molto raramente i vini di Echezeaux riportano in etichetta il nome del climat da cui provengono, dal momento che , nella maggior parte dei casi, provengono da più climats differenti: la proprietà è molto frammentata (per dare un’idea, Dominique Laurent possiede solo 0.16 ettari del climat En Orveaux; che risulta distribuito tra ben 17 proprietari) e , nella maggior parte dei casi, si tratta di blend di più climat insieme.
E’ un blend anche questo magnifico Echezeaux grand cru del Domaine des Perdrix, 1.15 ettari in due differenti climats di Echezeaux: Echezeaux du Dessous e Les quartiers de Nuits.
Echezeaux du Dessous (in tutto 3 ettari e mezzo circa) si trova praticamente nel cuore dell’appellation, e dà i vini più fini di Echezeaux, ed è per questo che è il solo climat che viene indicato in etichetta quando il vino proviene interamente da esso.
Posto a ovest di Grands Echezeaux, a sud di Les Poulallières , a nord di Les Loächausses e a est di Les Rouges du Bas gode di un’esposizione perfetta e di un suolo complesso, relativamente ricco di argilla.
Les quartiers de Nuits ha invece un’area più piccola, di soltanto 1.13 ettari : è quasi un monopole della famiglia Mugneret , che ne è proprietaria per la maggior parte.
I vini del Domaine Gérard Mugneret, infatti, sono 100%% di questo climat , e quelli del Domaine Mugneret-Gibourg per un buon 50% (l’altra metà proviene da Les Rouges du Bas).La porzione di questo climat classificata come grand cru si sovrappone ad un’altra che è invece solo village. La parte grand cru è in diretta continuazione con Petit Maupertui , all’interno delle mura del Clos de Vougeot.
Il suo suolo profondo, a carattere sabbioso-argilloso, dà vini più potenti e strutturati che fini, richiamando in parte i vini di Vougeot.
Splendida bottiglia di una vendemmia straordinaria, come quella del 2005. Dal colore scuro, profondo, quasi impenetrabile, propone un naso molto fitto, nel quale predomina la ciliegia nera, a cui fanno seguito note di altri frutti rossi, tra cui la prugna nera. In bocca rivela una notevole potenza, una bocca di inusuale freschezza nonostante i suoi 14 gradi di alcool, e ancora molto giovanile, e tuttavia ricca e speziata, con sfumature più complesse di caffè , ha tannini molto setosi, grande profondità e lunghezza. 92.5/100. Ha davantì a sé almeno 8-10 anni di vita (Pubblicato il 22.7.2011) .
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Non c’è appassionato di vini che non abbia mai sentito parlare dello Chateau d’Yquem, il mitico Sauternes, unico premier cru supérieur, unanimemente considerato uno dei dieci più grandi vini bianchi del mondo: un vino per il quale non vengono neppure indicate le “annate consigliate” essendo tutte considerate in ugual misura “eccezionali”. Eppure non è proprio così. In effetti , pur trattandosi sempre di un vino straordinario, non sarebbe del tutto corretto dire che non vi siano differenze, anche notevoli, da un’annata all’altra. Un grande vino non è un prodotto industriale , come tale, standardizzato e quindi sempre uguale a sé stesso , ma un prodotto della terra, del clima e naturalmente dell’uomo, e perciò destinato ad essere sempre diverso. E difatti questo 1999, l’annata più “conveniente” di Yquem, quella venduta ad un prezzo che, pur con qualche sacrificio, ha potuto essere accessibile anche a quegli amatori che non hanno alle loro spalle grandi patrimoni, non è proprio uguale ad altre vendemmie di questo grande vino, come , ad es. , quella dell’anno precedente, il 1998, oppure quella del 1997 o quella “perfetta” del 2001, per limitarci a quelle del quinquennio. Intendiamoci, per essere buono è buono, forse anche buonissimo. Sul foie gras su cui l’abbiamo provato era perfetto.
Bel colore giallo dorato, abbastanza carico, all’esame olfattivo dà note molto piacevoli di fiori di arancio, albicocca essiccata, frutta candita; bocca dolce, ma non stucchevole, di buon impatto e lunghezza, nella quale ritorna la scorza d’arancia candita . Non si avverte però la botrytis, che dovrebbe “marcare” un grande Sauternes, dando l’impressione più di un pur buonissimo passito . Un Yquem molto buono, ma non “magico”. Il giudizio di WOW è 91/100 (Pubblicato il 20.6.2011).
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Non vi è dubbio alcuno che quello dell’Etna costituisca un territorio con caratteristiche pedoclimatiche uniche, che lo rendono molto differente dagli altri territori vitivinicoli della Sicilia. e sicuramente tra i più vocati per la produzione di vini di qualità. Infatti, già alla fine dell’Ottocento,sull’Etna vi erano almeno 50.000 ettari di terreno vitati, e intorno alle pendici del vulcano, ad altezze vicine e talvolta anche superiori ai mille metri, si potevano contare una quarantina di varietà autoctone di vite. Dopo il flagello della peronospora, la ricostituzione di questo straordinario patrimonio fu lenta e parziale. La coltivazione della vite fu infatti praticamente dismessa nelle zone più alte e impervie, viste anche le difficoltà di utilizzare mezzi meccanici nelle vigne piantate col caratteristico alberello. Nelle zone più basse, invece, le vigne furono in gran parte sostituite dalla coltivazione degli agrumi, ritenuta economicamente più vantaggiosa. Eppure su questi suoli tipicamente vulcanici (in grande maggioranza suoli bruni andici), in altura -fino a 1.100 metri-, dove le escursioni termiche sono notevoli e la piovosità assai maggiore di quella del resto dell’isola, coltivato praticamente sulla lava, il nireddu mascalisi (nerello mascalese) viene su a meraviglia: Da solo, oppure integrato da altre uve a bacca nera, come il nerello cappuccio, dà vini potenti, ma freschi e minerali, di insospettabile eleganza e personalità. In questo territorio aziende come Cottanera, Graci, Il Cantante, Girolamo Russo, Scilio, I Vigneri, la Tenuta delle Terre Nere, per citarne solo alcune tra le più note, costituiscono ormai una realtà di assoluto rilievo, che non è sfuggita all’attenzione degli esperti e dei consumatori più evoluti anche all’estero (ad es. nella stampa specializzata in Gran Bretagna, come Decanter, e persino in Francia). Anche se i vini di cui più si parla sono sempre Magma, il vino più emblematico di Frank Cornelissen, e il Passopisciaro di Andrea Franchetti .
In questo insolito “duetto” dedicato al vino siciliano, accosteremo due tra i vini a base di Nerello Mascalese, che più ci sono piaciuti .Il primo è il Serra della Contessa di Giuseppe Benanti , un uvaggio di Nerello Mescalese (80%) e Nerello Cappuccio, da vigne di età quasi centenaria poste sul Monte Serra, a quota un po’ più bassa nel versante orientale dell’Etna nel comune di Viagrande, - Il secondo vino è il Passopisciaro di Andrea Franchetti, da uve Nerello Mescalese in purezza, provenienti da vigne di oltre 60 anni, coltivate ad alberello , tra i 500 metri di altitudine delle parcelle di Malpasso e Moganazzi e gli 800 di S.Spirito, sul fianco Nord dell’Etna: vino dal nome in verità poco elegante, che rinvia, cosa insolita in una località di montagna, alla vendita del pesce .
Il Passopisciaro viene da un suolo più ghiaioso nelle zone più alte, più sabbioso e ossidato, costituito da lave più vecchie, nelle zone più basse.
Due grandi vini naturalmente molto diversi, nonostante le innegabili “somiglianze di famiglia”, provenienti entrambi da due vendemmie eccellenti, quella del 2004 per il Serra della Contessa, e la 2008, forse la migliore dell’Etna in questi ultimi anni (almeno per i vini già in enoteca) , per il Passopisciaro.
Cominciamo dal Serra della Contessa, gioiello rosso di Giuseppe Benanti, che gli appassionati ben conoscono anche per il suo straordinario Pietramarina bianco, nel quale è protagonista assoluto un altro sorprendente vitigno autoctono etneo, il Carricante. Degustato un po’ fresco (sui 16°), vista anche la temperatura esterna , ormai in rapida ascesa, ci ha dato: colore amaranto piuttosto scuro,di buona brillantezza, nonostante i 7 anni dalla vendemmia, naso intenso, nel quale , insieme con quelle fruttate (soprattutto ciliegia e kirsch) , si colgono note più evolute, speziate (noce moscata e cannella ) con sfumature verdi (alloro), ed eleganti tocchi iodati e fumé, in un bell’equilibrio tra freschezza e mineralità. Un’ottima bottiglia, che vale oggi 91.5 punti su 100.
Ovviamente più pimpante il Passopisciaro, che cogliamo nella sua bellissima gioventù: colore ciliegia brillante con leggeri riflessi amaranto, con un naso prorompente, in cui si rincorrono la ciliegia scura e il lampone, note di arancia rossa e cannella. Di eccezionale freschezza, grazie anche alla sua evidente spina acida, nonostante una gradazione alcoolica importante (15°) , sapido, minerale , con tannini fini ed eleganti. Il piacere del bere, in cui la golosità non diventa però banale e non fa dimenticare il rango del vino (93 su 100) Un altro gioiello di Andrea Franchetti, che ha iniziato la sua avventura di produttore di vini una ventina di anni fa, con il fortunato esperimento della tenuta di Trinoro, sulle pendici dell’Amiata.: qui ha proposto vini con una fisionomia molto personale, assai meno standardizzati di altri toscani elaborati nella zona, a partire da vitigni internazionali (Petit Verdot, Merlot e Cabernet franc e Cabernet Sauvignon), proposti anche assemblati , come ne Le Cupole di Trinoro, vino ingiustamente definito “di base” della tenuta, in uvaggi insoliti , che prevedono vitigni di altre regioni, come il laziale Cesanese d’Affile, e il Nero di Troia pugliese.
Una decina di anni dopo, la sua seconda avventura, siciliana. Ora al Passopisciaro e al Guardiola (uno Chardonnay opulento e complesso, del quale parleremo in altra occasione), che sono stati i primi vini dell’azienda, si affiancano altri preziosi rossi “etnei”, lo Sciaranuova, il Contrada Chiappemacine, e soprattutto il Contrada Porcaria e il Contrada Rampante. Sono soprattutto gli ultimi due i cru che fanno intravedere il potenziale più alto e che ci proponiamo di poter presto degustare. .Entrambi provengono da piccole vigne di appena un ettaro ciascuna, poste ad altezze superiori ai 7-800 metri , per arrivare agli oltre mille della Contrada Rampante (nomen omen), successione di ripide terrazze scavate sulla parte lavica di Solicchiata, a Nord-Nord-Est: viti in gran numero ancora a piede franco, che affondano in un suolo più sabbioso, mescolato a lava più antica, di colore più chiaro. Le uve vi vengono vendemmiate ancora più tardivamente , in una zona nella quale si arriva a vendemmiare anche ai primi di novembre, con temperature esterne non superiori ai 10°, in un’isola notoriamente caldissima, ciò che dà ancora un’altra misura della eccezionalità siciliana di questo territorio (Pubblicato il 12.6.2011).
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